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L'ultimo arrivato

Era la fine del’ 59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi. Ma c’è un limite a tutto e quando la miseria ti sembra un cavallone che ti vuole ingoiare è meglio che fai fagotto e te ne parti, punto e basta” Inizia, così il racconto di un bambino che negli anni del boom economico emigra da un paese della Sicilia e arriva nel ricco Nord in una grande città.

A Milano ti puoi costruire un futuro. Muratore, fabbricatore, garzone e tanti altri lavori che qui nemmeno si conoscono” con queste parole il padre lo incita a partire.

Sono anni duri, di fatica, di sacrificio, lontani dalle proprie radici e dalla propria famiglia, Ninetto, affronterà tutte le paure di crescere in un contesto così diverso dal suo. “Il trasloco a Bollate l’ho fatto in bicicletta…il paesaggio lì non c’entrava più niente con Milano….si vedevano contadini a lavoro, anche femmine, e io a vederle pensavo che allora la miseria c’era anche al nord, come in effetti c’era, perché dove ci sono femmine in mezzo ai campi lì c’è miseria”.

E’ un ciclo della storia, che si ripete. Trent’anni dopo Ninetto, non è più un ragazzino, ma un lavoratore dell’Alfa Romeo, ed ora con l’avvicendarsi della crisi, gli ultimi arrivati non provengono più dal Sud Italia, ma da altri paesi extraeuropei e le vicende di solitudine, di sopraffazione, di emarginazione sono sempre le stesse.

La vicenda personale del protagonista è toccante, tra continui flash back, solo alla fine il lettore scoprirà il motivo per cui ha trascorso gli ultimi anni della sua esistenza nel carcere e come spiega alla psicologa che lo segue “…. dopo che mi sono raccontato per filo e per segno fino al matrimonio adesso dovrei dire della fabbrica, trentadue anni di vita uguale ugualissima. Uguale da fare impressione. Anzi, da fare schifo …. quattro anni in catena di montaggio a controllare la macchina del tornio e per altri ventotto su un muletto …. E la vita che intanto non ti aspetta e va avanti …. Non so che dire, dottoressa. E se non so che dire significa che non ho vissuto, o peggio che mi hanno minchionato e che l’ho buttata nell’immondizia la vita che Dio mi ha dato, l’ho sciupata anche prima del carcere!

La forza di questo racconto, e la sua bellezza, risiedono nella sapiente capacità di narrazione, in una forma lessicale semplice e diretta. Il protagonista, pur provenendo da un mondo semplice, ha una profonda capacità di osservazione, un acume straordinario e una sensibilità fuori dal comune che lo portano a raccontare il mondo che cambia attorno a lui, ma che rende tutti simili nella deriva della vita.

Da leggere, girando per Milano, per ricordare luoghi, odori, situazioni di un tempo che hanno fatto la storia di questo paese e fanno parte di una memoria collettiva che ci rende molto più uguali, di quanto pensiamo "agli ultimi arrivati",


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